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R.E.M. – Discografia

 

Provenienti da Athens, oscura cittadina universitaria della Georgia, che diverrà famosa per le sue proposte musicali, Peter Buck (chitarra), Bill Berry (batteria), Mike Mills (basso e cori) e Michael Stipe (voce) sono i quattro cavalieri che intraprendono il compito di portare il vessillo del rock indipendente americano degli anni ’80. Si chiamano R.E.M., acronimo che sta per Rapid Eye Movement – la fase del sonno in cui vengono fatti i sogni, e si ispirano a certo pop psichedelico degli anni ’60. I parallelismi con la nascente corrente “Pasley Underground” di Los Angeles si sprecano, ma i quattro ragazzetti del vecchio sud possiedono un talento pop molto superiore a Dream Syndcate, Long Ryders o Rain Parade.

Dopo il promettente ep di debutto Chronic Town (1982 – bella soprattutto Gardening At Night), che li rende beniamini delle fanzines post punk americane, i quattro esordiscono con l’album Murmur (1983 - ***1/2), opera prima su IRS, il cui valore è sempre stato un po’ sopravvalutato dalla critica. Si tratta di veloci brani college rock, con un cantante che farfuglia misteriose parole incomprensibili ed un chitarrista che sembra cresciuto a pane e Byrds (ed è vero!).  
 

A distanza di anni possiamo dire che Murmur è più importante che bello, ma canzoni come Perfect Circle, Sitting Still, Talk About The Passion e la briosa Radio Free Europe mostrano già un talento che saprà dare molte soddisfazioni.

Reckoning (1984 - ***) potrebbe già sembrare un deciso passo indietro: la normalizzazione dei R.E.M. su un terreno pop congeniale ai Cars ed a centinaia di band che infestano gli Stati Uniti in quel momento. Di certo il singolo (Don’t Go Back To) Rockville è uno scialbo motivetto da corso di laurea, ma sono altri i gioielli del disco: So. Central Rain (I’m Sorry) e soprattutto la spettacolosa Pretty Persuasion (una delle canzoni più belle dell’intera carriera). Reckoning è importante perché dimostra cosa sono comunque capaci di fare i quattro di Athens anche quando l’ispirazione non gira certo a mille.

Il 1985 potrebbe decretare la fine del complesso viste le disastrose vendite del terzo album Fables Of Reconstruction (****). I R.E.M. si fanno guidare da uno dei produttori più famosi del rock britannico, tale Joe Boyd, che nella sua carriera è stato in studio con Pink Floyd, Fairport Convention e Nick Drake, tutti artisti ben lontani da quanto fatto vedere fino ad allora da loro. Fables Of Reconstruction è essenzialmente un disco di ballate folk, in cui la chitarra acustica soppianta spesso quella elettrica. I fans non capiscono, ma si tratta di uno degli album più coraggiosi ed originali degli anni ’80. Qualche titolo? Maps And Legends, Driver Eight, Don’t Get There From Here, Life And How To Live Is, Wendell Gee. Non conoscete queste canzoni? Beh, allora dovreste scoprirle. Se volete un consiglio iniziate l’ascolto di Fables Of Reconstruction da Feeling Gravity Pulls, un brano semplicemente portentoso.

Come sulle montagne russe i R.E.M. non amano ripetersi, le chitarre elettriche ringhiano come non mai in Lifes Rich Pageant (1986 - ***), dove la fonte di ispirazione sono i bostoniani Mission Of Burma. Nonostante gli illustri mentori, l’album stenta a decollare e non bastano belle prove di scrittura come Cuyahoga o I Believe. Per la prima volta i R.E.M. dimostrano una vena polemico – politica niente male con Flowers Of Guatemala e con l’inno anti – nuclearista The Fall On Me che diverrà un classico nelle scalette dei loro concerti.

Dead Letter Office (1987 - **1/2) è uno strambo progetto che racchiude riempitivi, brani del primissimo periodo (notevole soprattutto Carnival Of Sorts / Boxcars), spezzoni dal vivo e cover (Pale Blue Eyes, Femme Fatale e There She Goes Again dei Velvet Underground ed una sorprendente Toys In The Attic degli Aerosmith).

  

Document (1987 - ***1/2) è il disco che fa fare il botto ai R.E.M. nelle classifiche. Successo ampiamente meritato perché trattasi di lavoro poetico ed appassionato come ce ne sono pochi. Ci sono tre canzoni straordinarie come la ballata “adulta” The One I Love, la punkeggiante It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine) e l’iniziale martellante Finest Worksong.

Il resto del disco però, pur rimanendo sempre su livelli più che buoni, non è fatto della stessa pasta.
 

Il gruppo firma per una major (la Warner) ed è un segnale di quello che succederà di lì a poco nel piccolo mondo dell’indie rock americano. Green (1989 - ***) è album piuttosto deludente, anche se le vendite sono gratificanti grazie ai singoli Pop Song ’89, Orange Crush ed al tormentone radiofonico Stand.

A proposito di tormentoni i tempi sono maturi per il successo planetario, quello vero, quello che si conta a milioni di copie. Il responsabile di tanta grazia è un disco intitolato Out Of Time (1990 - ***), uno degli album più contraddittori della carriera dei R.E.M. Half A Word Away ed il mandolino insistito dell’epocale e bellissima Losing My Religion riportano alle atmosfere eleganti di Fables Of Reconstruction. L’iniziale Radio Song flirta con l’hip hop, mentre Near Wild Heaven e Shiny Happy People (con la partecipazione di Kate Pierson, cantante dei concittadini B’52) sono canzoncine facili facili. In Belong Stipe rinuncia perfino a cantare (tanto nessuno ha mai capito bene quello che dice), limitandosi a mugulare, con il solito aiuto di Mills, un motivetto banalotto. Con Low e Country Feedback viene invece riscoperta l’antica passione per i Velvet Underground.

L’attesa per il successivo Automatic For The People (1992 - ****) è ancora più spasmodica di quella cha aveva caratterizzato l’uscita di Green, ma il mondo del rock viene ripagato dal loro disco migliore fino a quel momento. La dolente ballata acustica Drive, squarciata da lampi di feedback porta l’ascoltatore in un mondo di dolore non facile da decifrare. Il pop fintamente allegro di The Sidewinder Sleeps Tonite convive nello stesso disco con la pianistica Nightswimming o con il pensoso “lento” Find The River. Grande varietà e bele canzoni. Quando poi i R.E.M. omaggiano gli anni ’50 con le celeberrime Everybody Hurts e Man On The Moon, si tocca il livello di capolavoro. Il cuore si spezza ed ancora una volta ci innamoriamo di loro.

Mentre il mondo del rock impazzisce per le chitarre elettriche dei Seattle Boys, i R.E.M. decidono di mettersi in competizione con lo sconcertante Monster (1994 - **), in cui le loro melodie vengono sovrastate da muri sonici stordenti. Il singolo Bang And Blame è dedicato al suicida Kurt Cobain, ma desta pochi entusiasmi. I punti migliori del disco sono l’originale What’s The Frequency, Kenneth? e l’impersonale Let Me In, la cui fragile melodia galleggia temeraria su mari di feedback.

Il passo successivo è quello di registrare il loro personale Running On Empty, registrando canzoni negli hotel e nei backstage toccati durante l’estenuante Monster Tour.
Come nell’illustre modello inciso da Jackson Browne a metà degli anni ’70, New Adventures In Hi – Fi (1996 - *****) è album che risente dell’urgenza che gli ha consegnato il soffio vitale. La scaletta segue un ideale viaggio lungo gli States, da est a ovest ed è quanto di meglio fatto dai R.E.M. nella loro prestigiosa epopea.  
How The West Was Won And Where It Got Us assomiglia a Drive, ma è perfino meglio; la poetica E – Bow The Letter, storia di un amore epistolare, ospita Patti Smith e Lenny Kaye; Wake Up Bomb rispolvera l’aggressività di Monster con maggiore cognizione di causa.
 

Quando infine le luci di Los Angeles ci accolgono in Electrolite, ci scopriamo felici ed appagati. I brani migliori a mio parere rispondono ai nomi di New Test Leper, Be Mine e soprattutto Leave (la cosiddetta “canzone dell’antifurto”). Il batterista Bill Berry, colpito da aneurisma celebrale durante il tour, decide di mollare definitivamente il gruppo.

I R.E.M. si trasformano dunque in un trio, realizzando un disco iper – tecnologico intitolato Up (1998 - ***1/2), in cui la batteria di fatto non c’è. E’ musica da camera con qualche scarto laterale, che prende ispirazione da certe cose di artisti come Paul Simon, Peter Gabriel e Robbie Robertson. Le cose migliori sono rappresentate da Walk Unafraid e dall’arrangiamento di archi di At My Most Beautiful. I singoli di maggior successo sono comunque piuttosto ben riusciti: Daysleeper per la bellezza della traccia melodica, Lotus per il curioso andamento funk che potrebbe ricordare i Gang Of Four. Per la prima volta i testi sono stampigliati nelle note di copertina e questo riduce di molto il fascino dei R.E.M. sugli ascoltatori anglofoni.

Reveal (2001 - ***) è la personale rivisitazione made in R.E.M. della musica di Brian Wilson dei Beach Boys. Una serie di canzoni fintamente spensierate, che invece nascondono attimi di disperazione autentica. Si ricordano The Imitation Of Life (con un video semplicemente geniale) e All The Way To Reno (You’re Gonna Be A Star). Il terzetto sembra molto più concentrato sulle singole canzoni che sulla realizzazione di album, proprio in quel periodo escono sparsi su colonne sonore e compilation autentici gioielli come The Geat Beyond, Animal e Bad Day, che da soli valgono quasi quanto tutto Reveal.

Brutto colpo d’arresto è rappresentato dal successivo Around The Sun (2004 - **), il disco con il quale i R.E.M. perdono quasi tutto il loro residuo credito. Chi avrebbe mai pensato che Michael Stipe avrebbe un giorno scritto una canzone così banale come Leaving New York? Eppure si tratta non certo della canzone più brutta in scaletta.

Atteso da molti anni, i R.E.M. approcciano finalmente il loro primo disco dal vivo. R.E.M. Live (2007 - ***1/2) è buono per la scelta delle canzoni e per un’aria arruffata che fa molto garage rock. Purtroppo allegato c’è anche un dvd con riprese talmente frenetiche da sollecitare conati di vomito. Si riscattano nella dimensione dal vivo canzoni trascurate come Boy In The Well e Final Straw. Appare anche I’m Gonna DJ che farà parte del disco in studio successivo.

Ormai il vulcanico chitarrista Scott McCaughey (Minus 5, Venus 3 con Robyn Hitchcock) è divenuto un membro permanente della compagnia ed il risultato è piuttosto eloquente con il velocissimo e compatto Accelerate (2008 - ***1/2). Mai i R.E.M., nemmeno agli esordi erano stati così puramente rock n’roll ed è pelomeno curioso che attraversino questa fase in corrispondenza della maturità musicale. I pezzi migliori sono Supernatural Superserious (Disguise), Hollow Man, Horse To Water e la title – track.

Per rodare la formazione del tour di Accelerate, i R.E.M. avevano effettuato delle prove aperte al pubblico. Un vero e proprio concerto avvenuto in quel di Dublino con l’intera scaletta di Accellerate (allora inedita) e moltissimi ripescaggi dai primi album degli anni ’80. Un evento chicca che viene pubblicato con qualche mese di ritardo per celebrare il buon successo di Accelerate. Pur con le sbavature del caso, Live At The Olympia In Dublin – 39 Songs (2008 - ****) è migliore dell’altro live ufficiale. Si tratta di un doppio cd diretto e tagliente come un rasoio con gli intrecci chitarristici sempre in bella evidenza. Su tutte una bella versione di Until The Day Is Done.

   Dopo la sbornia garage, i R.E.M. tornano alle loro atmosfere più classiche con Collapse Into Now (2011 - ***), album che vede la partecipazione di ospiti del calibro di Peaches, Patti Smith, Lenny Kaye ed Eddie Vedder. La montagna ha però prodotto un topolino perché l’album non riesce mai a decollare e ad imporre un proprio stile di riferimento.
E dire che l’enfasi dell’iniziale Discoverer o di Oh My Heart potevano lasciare ben sperare. Se poi si usa la splendida voce di Vedder per i coretti innocui della ballata It Happened Today, qualcosa non funziona. Possiamo dire che il singolo super abusato Uberlin sia uno specchio indicativo della pochezza delle idee messe in campo. Degno della miglior cover band dei R.E.M. del mondo
La grande massa di uscite postume, cresciuta a dismisura dopo lo scioglimento del gruppo, si arricchisce con il ghiotto doppio dal vivo Unplugged 1991 - 2001: The Complete Sessions (2014 - ***1/2).
 

Esattamente come promesso dal titolo, si tratta della registrazione integrale dei due concerti acustici tenuti, a distanza di dieci anni l'uno dall'altro, dai R.E.M. negli studi di MTV (l'unica canzone ripetuta in entrambe le occasioni è Losing My Religion). Il primo concerto vede i R.E.M. impegnati nel loro periodo più commerciale ed estroverso (per intenderci quello di Green e Out Of Time). E' l'apoteosi di Mike Mills e dei suoi coretti, mentre la vena pop è felicemente sottolineata dalla cover di Love Is All Around. I picchi di questo cd sono senza dubbio Half A World Away, Perfect Circle e World Leader Pretend. Nel secondo concerto sono invece in azione i R.E.M. in trio, quelli più adulti e cameristici. In effetti il crescendo drammatico talvolta è travolgente. Si sottolineano le grandi interpretazioni di di Michael Stipe in Country Feedback, So. Central Rain (I'm Sorry) e I've Been High. The One I Love viene presentata con un arrangiamento inedito e molto affascinante.

 

  Live Orlando 1989 (1989 - ***1/2) è un bootleg ufficiale che testimonia il controverso tour in supporto a Green. I R.E.M. all'epoca venivano considerati dei traditori per essere passati di fresco alla corte di una major. Forse proprio per questo il live è una scheggia velocissima di garage rock, con le hit di Green poste accanto alle più energiche canzoni del passato.
La qualità sonora non è ottimale, ma in compenso lo sono la sarabanda rock di Finest Work Song, il sublime richiamo byrdsiano di I Believe o la potenza quasi hardcore di Welcome To The Occupation o di Feeling Gravity's Pull.
  Lorenzo Allori