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Willie Nile - DISCOGRAFIA

Nato a Buffalo, New York nel 1948, Willie Nile inizia a suonare ispirandosi al rock "blue collar" della seconda metà degli anni '70. Come per Tom Petty, l'altra sua forte fonte di ispirazione sono gli arpeggi elettroacustici dei dischi dei primi Byrds.

Il primo album esce nel 1980 e sembra preludere ad una carriera maestosa. Willie Nile (***1/2) vede alla batteria Jay Dee Daugherty del Patti Smith Group ed è un esempio perfetto della febbrile aria che si respirava nella New York della new wave. Questo album è figlio sia del punk poetico della Smith o di Jim Carroll, sia del rock classico di Bruce Springsteen. Vagabond Moon (entrata anche nel repertorio del nostro Massimo Bubola), Across The River, She's So Cold e la grandissima Sing Me A Song sono subito dei classici di questo sfortunato cantautore.

Nel luglio del 1980 Wilie Nile ha subito la chance di suonare nel quadro dell'ambito Central Park Festival di New York City. Gli ascoltatori rimangono incantati dalla forza e dall'impeto di questo musicista. Live In Central Park (1980 - ***1/2) è la testimonianza di quel concerto leggendario. Dei tanti cantori delle storie della grande metropoli, Willie Nile è sicuramente quello più popolano ed innamorato della propria città, anni luce lontano dal sarcasmo di gente come Lou Reed.

Nel 1981 Sandinista! dei Clash è uno dei dischi più popolari in quel di New York e Wilie Nile ne rimane così tanto affascinato da cercare il connubio tra il punk rock ed il suo classic rock.
Golden Down (1981 - ***1/2) riceve molte critiche, ma anche diversi apprezzamenti. Le scelte artistiche che stanno dietro a brani come Poor Boy, Golden Down o Les Champs Elysées sono però commercialmente suicide, per cui Willie diventa un perdente annunciato; un po' lo stesso destino che capiterà a Willy DeVille.
 

Inizia una polemica condita da cause legali varie tra Willie ed il suo management, che lo lascerà abbandonato e fuori dagli studi di registrazione per oltre dieci anni.

Il ritorno sulle scene nasce sotto una cattiva stella. Abbandonate per un attimo le polemiche, Places I Have Never Been (1991 - **1/2) non riesce ad essere incisivo come i primi due album. Willie Nile sembra essere stanco e non irruente come un tempo. Si ricorda Rite Of Spring e poco altro. Risulta leggermente meglio l'ep Hard Times In America (1992 - ***) contenente cinque brani in studio di discreto livello.

Ancora tanti anni di silenzio, che certo non giovano a Nile. Con Beautiful Wreck Of The World (1999 - **) la freschezza dell'autore sembra andata definitivamente perduta per sempre.

Per ritornare in sella Willie Nile ha necessità di ricominciare a cantare la propria città. Ecco che infatti Streets Of New York (2006 - ***1/2) è un signor album, in cui tutte le passioni del nostro tornano a galla prepotentemente. The Day I Saw Bo Diddley In Washington Square, la loureediana Faded Flowers Of Broadway e la pertinente cover di Police On My Back dei Clash sono i motivi numero uno per ascoltare questo disco.

La dimensione migliore del Willie Nile musicista è sicuramente quella live e tutto ciò viene confermato dal bel Live From The Streets Of New York (2008 - ****), nel quale vengono recuperate anche alcune gemme del glorioso passato.

La semplicità di scrittura tipica di Nile emerge ancora più nitidamente nel suo personale omaggio alla storia del rock n'roll intitolato House Of A Thousand Guitars (2009 - ***1/2). Chitarre a dodici corde come quelle dei Byrds, oppure aggressive come quelle dei primi album dei Clash, usate benissimo in grandi canzoni rock, come la title track, Doomsday Dance, Magdalena o la ballata Love Is A Train.

The Innocent Ones (2010 - **) rappresenta una nuova battuta d'arresto. Willie è in evidente calo di ispirazione e la ripetizione all'infinito della consueta formula musicale non stimola certo l'interesse del pubblico.

 

American Ride (2013 - ***1/2) è invece nuovamente un album ispirato. La title track e Holy War sono due piccoli capolavori in puro Nile style. Si ricomincia a raccontare le storie di New York City (Life On Bleecker Street, There's No Place Like Home); si sperimenta un certo combat punk / folk, irlandese discendente diretto da quello dei Flogging Molly o dei Dropkick Murphys (This Is Our Time, Say Hey); si arrangia una canzone bagnandola nel Mississippi di New Orleans (Sunrise In New York City) ed infine si spezza il cuore degli ascoltatori con la tenera ballata pianistica The Crossing.


If I Was A River (2015 - ****) è il classico disco che non ti aspetti da un rocker tutto di un pezzo come il buon Willie. Intriso di un romanticismo decadente tutto anni '70 (che rimanda dritto al primo Bruce Springsteen, al primo Tom Waits o ai Mink De Ville), l'album è stato inciso esclusivamente con l'ausilio del pianoforte e della voce di Nile.
 

Ne viene fuori un piccolo gioiello, con ballate notturne e commoventi quali la title track, Lost, Once In A Lullaby o Goin' To St. Louis. Verrà ricordato giustamente a lungo.

La ricetta musicale prodotta da Willie Nile è da sempre improntata alla semplicità ed al minimalismo. Per questo il rischio di essere banali è sempre dietro l'angolo. Dopo un inizio roboante, che sa molto di E-Street Band anni '80, World War Willie (2016 - **1/2) frequenta spesso territori limitrofi al punk rock, ma lo fa in un modo che oserei definire quasi scolastico.
Accanto a canzoni discutibili come la title track o Hell Yeah, Nile riesce comunque a piazzare una buona ballata come Runaway Girl ed il mid tempo intitolato Trouble Down In Diamond Town. Non aiuta ad alzare il giudizio il fatto che sempre più le scalette dei suoi dischi assomiglino ai "coccodrilli" delle cronache locali. Questa volta ad essere ricordati tocca a Levon Helm (con la folkeggiante When Levon Sings) ed a Lou Reed (con una discutibile cover della velvettiana Sweet Jane).
 Lorenzo Allori