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HABEMUS PAPAM Nanni Moretti

 

Regia: Nanni Moretti

Anno: 2011

Produzione: Italia - Francia

Durata: 104 minuti

 

Il caso vuole la sua parte. E il tempo pure. Stavo scrivendo queste due righe in fretta, più per istinto che per distrazione. Le impressioni erano ancora calde. Forse troppo. Allora, come spesso accade, s’è messo di mezzo il caso. Sono stato costretto a rimandare. Salvo quindi la bozza sul computer, e la lascio in gestazione. Quando, dopo due giorni, torno a scrivere, qualcosa di nuovo s’è sedimentato nella testa, qualcosa che non avevo ancora preso in considerazione. Habemus papam è la tuonante rivelazione che si abbatte sulla folla raccolta sotto il balcone di San Pietro.

Habemus papam perché, come vuole la tradizione, morto un papa se ne fa un altro.

La folla nel film urla come in delirio, e poi si calma. Allora, nel silenzio della piazza, si leva un unico grido che non è gioia, ma paura tremenda. E non viene dal basso, dalle facce di chi aspetta con trepidazione, ma è nascosto dietro il damasco del balcone, sipario di questo spettacolo seguitissimo. Il papa appena eletto è bloccato sulla sedia, le mani al volto, gli occhi della preda braccata che non sa dove andare, solo scappare. E infatti scappa. Non ce la fa, non riesce a dire niente, non sente di essere in grado di fare la sua parte. Anche la Santa Sede non sa che fare e chiama uno psicanalista (Moretti) per risolvere il problema e rimettere a posto, in un colpo solo, cose e papa. Nasce così una storia di responsabilità che intreccia fede e analisi, anima e coscienza.

Chi si ricorda La messa è finita, magari farà dei paragoni. Lì Moretti interpretava un prete, ed era il 1986. Qualcosa è cambiato, Moretti è diventato regista maturo e molto elegante. Eppure qualcosa de La messa è finita rimane anche in questo film. E tutto a livello di contenuto. Come la sensazione di essere soli e il timore di fallire, di non farcela. Di non trovare sempre le spiegazioni che cerchiamo e ci danno forza. Come Cristo nel Getsemani, e come questo cardinale Melville, che una fumata bianca gli ha appena cambiato la storia, gli ha cancellato la vita di sempre, le facce delle persone conosciute, i volti della certezza. Come la maggior parte dei film sul sacerdozio, l’ambiente è tutto misurato tra il dentro e il fuori. Il papa disertore (il cui volto non è stato ancora rivelato al mondo intero) riesce a squagliarsela dal Vaticano e, nelle strade di Roma, cerca il coraggio di tornare, o fuggire per sempre. Finirà in un teatro, come nei sogni del vero Wojtyla, e scovato dal conclave durante la rappresentazione, verrà acclamato dalla platea, come il giorno dell’elezione lo applaudiva la piazza tutta. Lui è chiuso in un palchetto in galleria, costretto ad affacciarsi comunque da un balcone, con lo stesso damasco a fargli da cornice.

Il film si muove zoppicante su due registri, il tragico e il comico, che sanno stare insieme solo con arte. E stupisce che alla sceneggiatura ci sia uno che fa ironia semplice e pura come Francesco Piccolo. Insieme a Moretti dovevano essere fuochi d’artificio.

Nel film il comico si rifugia più volte in siparietti banali. Cardinali che rincorrono il bombolone alla crema, metafora originalissima del gusto della vita, e danzano rigorosamente fuori tempo una suonata spagnola alla Almodovar, sono trovate simpatiche ma datate e lo psicanalista Moretti è un personaggio volutamente sopra le righe, a tratti fastidioso, che, insieme alla ex moglie (psicanalista pure lei), apre parentesi che non chiude.

Eppure c’è una sensazione, seppur flebile, che arriva al cuore. I cardinali sono soggetti alla vanità. In un momento del film, le quotazioni della stampa sono usate contro di loro, come indici di gradimento da febbre del televoto. Chi era dato per vincitore gioisce, chi non era nominato s’indispettisce. Lo psicanalista è altezzoso e crede di avere una sola condanna, quella di essere il più bravo di tutti. In mezzo a tanta superbia, il papa fuggitivo (interpretato da un bravissimo Michel Piccoli) è l’unico a non credere nelle proprie qualità. Come a ricordarci che in questo mondo votato all’apparire sono sempre di meno quelli che si preoccupano di esserci davvero, di domandarsi del senso del proprio operare.

E se il film magari non convince subito, si ha l’impressione che custodisca una certa bellezza, che magari non si dà al primo assaggio, ma ha bisogno di un po’ di tempo per essere assaporata, e magari di un pensiero in più, che può essere quello di un caffè al bar, il giorno dopo. Eccolo il caso. Perché stamattina, insieme al caffè, mi sono regalato il tempo di sfogliare il giornale. A pagina quattro il papa Ratzinger, quello vero, ha risposto alle domande dei fedeli. E l’ha fatto per la prima volta in tv, preso pure lui da un’urgenza mediatica. Le risposte sono calibrate, per niente esaurienti. Anche quando risponde a una bambina giapponese che chiede spiegazioni (dovutissime) per una giustizia divina che abbatte catastrofi solo in alcune zone della terra, come il suo Giappone, e sembra risparmiare i forti, il papa vero ammette di non sapere, di non poter spiegare (perché il volere divino è insondabile), ma mai si piega, mai s’interrompe, mai tace, preso dal peso delle insicurezze. Le sue convinzioni da teologo suonano sempre così certe.

Allora mi torna in mente il volto del papa di Moretti che rimesso al suo posto, riesce a parlare alla folla. La figura si staglia netta, dietro di lui il nero più impenetrabile. Sono gli ultimi minuti del film e il papa rinuncia all’incarico: - avete bisogno di una guida che sappia condurre, ma io non sono la persona giusta perché ho bisogno di farmi condurre - dirà con gli occhi dell’animale ferito e finalmente libero di morire in pace. E all’improvviso qualcosa torna a posto, dimentico quel po’ di noia che il film m’aveva trasmesso, qualche riserva su una Margherita Buy ridotta all’osso, le banalità e le incongruenze, perché forse tutto serviva a qualcosa, come gli ingredienti insipidi che, messi insieme, prendono sapore solo negli ultimi minuti di cottura.

Così capita con questo film, che chiude in silenzio e noi, in coda, a chiederci chi sappia davvero condurre il popolo, se l’umile servitore impaurito o il teologo superbo?

 Mattia Colombo