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Jacques Derrida & Ornette Coleman – Musica senza alfabeti: un dialogo sul linguaggio dell’altro

Autore: Jacques Derrida, Ornette Coleman, Samantha Maruzzella, Massimo Donà, Robert Palmer, Masashi Sasaki

Casa Editrice: Mimesis

Pagine: 124

Prezzo di copertina: € 10,00

 

Nel 1972 Ornette Coleman, padre dell'improvvisazione libera nel jazz, pubblica un album per orchestra e sax contralto solista che prende il nome di Skies Of America. Si tratta di una lunga suite su due facciate (insieme alla London Symphony Orchestra diretta da David Measham), per la quale Coleman tira in ballo per la prima volta la sua controversa "teoria armolodica" della musica.

La filosofa del costume Samantha Maruzzella, con questo piccolo volume, unisce alcuni saggi sull'argomento "armolodia" ad un affascinante dialogo, avvenuto nel 1997 ai margini di un concerto parigino del sassofonista, tra lo stesso Coleman e il filosofo Jacques Derrida. Il libro è pregno di spunti interessanti, ma fino alla fine non riesce bene a chiarire quale sia la vera essenza dell'armolodia ed in cosa consista. Poi il mistero lo svela lo studioso giapponese Masashi Sazaki con l'ultimo saggio, quello più prettamente musicale, ma andiamo con ordine:

Jacques Derrida è stato uno dei più insigni filosofi dell'arte del XX secolo, nonché il maggiore critico di ciò che comunemente vene definita "realtà postmoderna". Il suo campo di studi è in particolar modo il linguaggio e la comunicazione. Per questo, pur non capendo molto di jazz, si sente stimolato nel dialogare con Ornette Coleman. Ha intuito che la rivoluzione free jazz ha fornito un contributo fondamentale alla democraticità della musica ed è stata veicolo di idee innovative dirompenti per la realtà della comunità afroamericana. Dal canto suo Coleman nicchia, gioca con le tre carte e sembra sfuggire alle domande ficcanti dello studioso. Ammette che nella sua musica tutti sono chiamati a comporre, che lui ha un'idea dei brani, ma che lascia ampio spazio ai propri collaboratori, che di fatto rifiuta le idee troppo rigide, ma rispedisce al mittente anche ogni accusa di estrema destrutturazione che viene mossa al suo jazz. Spesso tira in ballo l'armolodia, la quale diviene una pietra dello scandalo, un Godot atteso all'infinito in un dialogo in cui i due sembrano parlare della stessa cosa, senza saperla descrivere con le parole dell'altro.

Ornette Coleman viene individuato come colui che ha inventato il free jazz. I titoli dei suoi album di fine anni '50 / inizio anni ‘60 vengono scanditi dagli appassionati di jazz come fossero il sacro graal del jazz moderno: Somethin' Else!!!! (1958), Tomorrow Is The Question! (1959), The Shape Of Jazz To Come (1959), Change Of The Century (1960), This Is Our Music (1960) e naturalmente il dirompente Free Jazz: A Collective Improvisation (1960). A prescindere dall'esteticamente discutibile abbondanza di punti esclamativi, già i titoli degli album rendono l'idea di quello che fu la comparsa del contraltista texano per il mondo del jazz. Molti lo accusarono di essere un pressappochista, di non saper suonare, di essere un ciarlatano, qualcuno addirittura di essere una sorta di stregone. Di tutte le critiche mosse a Coleman (peraltro da gente al di sopra di ogni sospetto, tipo un certo Miles Davis), l'unica che mi sento di sposare in pieno riguarda la qualità del suo suono, ma ovviamente non c'è da stupirsi di questo, vista la sua scelta consapevole ed iconoclasta di suonare un sassofono di plastica (condivisa peraltro con il sodale trombettista Don Cherry). Pur avendo io generalmente una grande opinione della musica di Coleman, secondo me traspare chiaramente da questo libro come tutto sommato si sia trattato anche (per fortuna non solo) di un abile venditore di se stesso. Ornette Coleman, come fanno certi analfabeti con i problemi matematici; non era assolutamente in grado di sviluppare compiutamente la portata filosofica della sua musica, cosa che Jacques Derrida cerca inutilmente di instradare nella loro discussione tra parziali sordi, era però assolutamente capace di intuire che qualcosa di rivoluzionario doveva esserci davvero. E si trattò di una rivoluzione che andò ben oltre i soli aspetti meramente tecnico musicali.

L'erudito saggio La bellezza è una cosa rara di Robert Palmer ci regala una lettura fuori dai soliti tracciati del free jazz colemaniano. Generalmente viene individuato come il coronamento di un lungo processo di africanizzazione del jazz, iniziato con il be bop di Charlie Parker e continuano con il soul jazz (o hard bop) degli anni successivi. Palmer invece sottolinea, seguendo il solco delle domande di Derrida, inutilmente poste a Coleman nel dialogo parigino, la portata democratica della musica in questione, ponendola viceversa in aperto contrasto con l'ipertecnicismo di tutta la famiglia boppistica. Il re Ornette viene denudato come colui che ha finto di ideare musica senza chiavi di lettura, per poi viceversa affidarsi ad un nuovo alfabeto espressivo, che prevede una leadership rinnovata del compositore, il quale lascia volutamente più spazio rispetto al solito ai suoi collaboratori. Chissà cosa pensano di tutto ciò dalle parti di Chicago.

Ornette Coleman diceva che l'armolodia era una tecnica compositiva nella quale melodia, armonia, movimenti, ritmo e dinamiche rivestono tutti la stessa importanza. Ma di cosa si trattava in realtà? Nel saggio conclusivo Due tipi di modulazione nella musica di Ornette Coleman, Masashi Sazaki ci spiega come l'armolodia sia essenzialmente un'improvvisazione semi - libera sfruttando continue modulazione di chiave. In questo modo si confutano e razionalmente si spiegano meglio anche certe "leggende telepatiche" legate al doppio quartetto dell'album Free Jazz: A Collective Improvisation. E colpisce come riecheggi qui una parte della teoria musicale modale applicata al jazz (con conseguente rifiuto della classica improvvisazione tramite progressioni di accordi precodificata) che proprio negli anni dell'epifania colemaniana interessò musicisti del calibro di Ahmad Jamal, Miles Davis, Bill Evans e John Coltrane.

In definitiva Musica senza alfabeti rappresenta più che un libro che parla di musica, è una strana digressione filosofica, spesso prolissa a dispetto delle poche pagine stampate, applicata ad uno dei generi jazzistici più influenti del XX secolo.

 

 Lorenz Allori