Sono andato a ricercarmi questo vecchio disco della Steeplechase dopo aver letto che Eric Nisenson, nella sua bella biografia di John Coltrane, lo considerava “one of the most moving albums of the seventies”. Bene, Nisenson aveva torto per difetto. Perché questa reinterpretazione di temi spiritual vecchi anche più di un secolo da parte di uno dei sassofonisti più moderni e ‘arrabbiati’ per definizione non è solo un’autentica meraviglia, ma probabilmente anche uno dei dischi più commoventi dell’intera storia del jazz. Confermando, inoltre, un vecchio assioma: il legame ombelicale che corre tra alcuni dei portabandiera del free jazz e le radici più profonde della tradizione musicale afroamericana. Così che, quando sono un Albert Ayler, uno Shepp o anche un Pharoah Sanders a riprendere la sofferenza e la rassegnazione che emergono dai vecchi spirituals, il tutto suona ben più sentito, profondo, coinvolgente di quando (che so) a cimentarsi con lo stesso materiale sono Hank Jones e Charlie Haden, o magari Dave Murray… Ascoltate questo Goin’ Home e poi accostategli il pur bello Steal Away di Jones e Haden, che affronta sostanzialmente gli stessi brani: capirete che intendo dire. E poi recuperate senza indugio la più straordinaria trasfigurazione di uno spiritual in chiave free, Let Us Go Into The House Of The Lord di Pharoah Sanders da Summun, Bukmun, Umyun del 1970, quasi venti minuti da lucciconi agli occhi che, per le strane vie del pianeta musica, sarebbe diventato nel 1978 uno dei principali brani ispiratori del capolavoro ambient di Harold Budd The Pavilion Of Dreams… Ma sto evidentemente divagando. Torniamo a Shepp, e a Goin’ Home. L’Archie Shepp del 1977 non è più la forza tellurica che aveva incendiato album come The Magic Of Ju-Ju o Mama Too Tight. Usa tuttavia la forza di un timbro saxistico senza uguali (“big and gruff” per dirla con gli americani) per continuare a parlare a nome del popolo nero. Non più come alfiere della rivoluzione che verrà, quanto piuttosto come rispettoso re-inventore di alcuni dei brani maggiormente simbolici dell’immenso patrimonio spiritual. Via i grandi gruppi, via gli statements recitati in mezzo ai brani e le petizioni di principio. Solo un sax tenore (saltuariamente sostituito dal soprano) e un pianoforte, a cura del bravo Horace Parlan. Nient’altro. L’obiettivo era quello di rinnovare dal fondo canzoni sentite e suonate mille volte, come a rappresentare tutti quelli che l’avevano fatto fino a quel momento, ed entrare senza paura nell’abisso di sofferenza infinita che stava dietro, ad esempio, a Sometimes I Feel Like A Motherless Child o Deep River. Il risultato è sfolgorante, a cominciare dalla title track. Goin’ Home è uno spiritual ‘alla seconda’, perché adattato in forma di spiritual da William Fischer dal bellissimo “Largo” della Sinfonia Dal Nuovo Mondo di Antonin Dvorak, che già di suo esprimeva in musica la nostalgia per la lontananza del compositore boemo dalla sua terra natia. Shepp entra con una cadenza espressiva per sax solo che introduce al tema, ‘cantato’ dal sassofono con delicatezza infinita e accompagnato dal pianoforte in malinconici accordi di settima. Il brano va poi in crescendo e c’è spazio anche per un bell’assolo di Parlan, ma quando, alla fine, Shepp riprende il tema e lo distende, quasi dissolvendolo in suoni singoli sempre più acuti e rochi tratti di peso dalla lezione free, che evidenziano all’improvviso la reale acutezza della sofferenza che sta dietro ad ogni sentimento, il risultato è semplicemente da pelle d’oca. E così per gli altri brani, con menzione speciale per Go Down Moses, Steal Away e l’ellingtoniana Come Sunday, unico brano moderno del set. Qualche anno dopo il duo Shepp - Parlan riproverà l’impresa con Trouble In Mind, raccolta di brani blues bellissima ma un filo più consueta. Lo Shepp solista, d’altra parte, negli ultimi trent’anni non ha più detto niente di sostanziale. Goin’ Home è dunque il suo canto del cigno, ma anche il modo migliore possibile per ascoltare e comprendere gli spiritual a mesi di distanza dal Natale. Not to be missed… |