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ORNETTE COLEMAN TRIO At The “Golden Circle” Stockholm Vol. I - II

Anno di pubblicazione: 1965

 

Brani: Faces And Places / European Echoes / Dee Dee / Dawn / Doughnuts / Snowflakes And Sunshine / Morning Song / The Ridde / Antiques

 

Musicisti: Ornette Coleman (sax contralto), David Izenzon (contrabbasso), Charles Moffett (batteria).

 

 

La musica di Ornette Coleman ha suscitato acceso dibattito nel mondo del jazz fin dall'uscita del primo album del suo celebre quartetto (Something Else!!!! del 1958): qualcuno lo ha definito il "profeta della nuova musica", altri un musicista dallo stile inconfondibile, infine molti altri un ciarlatano che non sapeva suonare. Oggi possiamo serenamente affermare che sicuramente Ornette, che aveva fatto una lunga gavetta in oscuri complessi rhythm n'blues prima di approdare con continuità alle incisioni jazz, non rispecchiava in pieno nessuna delle tre definizioni, ma forse la sua personalità assegnava un fondo di verità a ciascuna di esse.

Non era "il profeta" perché, pur avendo idee armoniche piuttosto innovative, che avrebbero aperto le porte all'atonalità ed al free jazz, la musica del suo quartetto era abbastanza canonica. Al nostro orecchio moderno, dischi che all'epoca lasciavano sbalorditi per la loro audacia, sembrano invece piuttosto risaputi nel loro sviluppo. Spesso bellissimi, ma non così innovativi. Alcuni lavori di Albert Ayler, John Coltrane o Eric Dolphy sono molto più rivoluzionari dei tanto pubblicizzati primi album di Coleman. L'eccezione è rappresentata da Free Jazz: A Collective Improvisation che uscì però già nel 1960, allorché la "new thing" era una realtà consolidata almeno quanto l'hard bop e chi aveva ispirato chi rimane quesito irrisolto.

Non era un musicista dallo stile inconfondibile perché, al netto del timbro della strana strumentazione utilizzata, Ornette aveva rubacchiato qua e là nella già lunga storia del jazz. Se è vero che Charlie Parker non è mai stato un'ispirazione evidente (e per un contraltista emerso negli anni '50 è un elemento piuttosto strano), in molti passaggi degli assoli colemaniani si può rintracciare l'influenza del tenorista Lester Young, comunque un nome che certo non è un punto di riferimento espressivo particolarmente originale o esotico.

Infine Coleman non era certo un ciarlatano. Checché ne dicessero i suoi detrattori (primo fra tutti il geloso e polemico Miles Davis), era in possesso di una solida preparazione teorica e tecnica, anche se tendeva a nasconderla dietro i facili "fuochi d'artificio" di certe trovate pubblicitarie (l'abbigliamento da santone, il sax di plastica gialla, le provocazioni verso il pubblico nelle esibizioni dal vivo). Ornette seppe costruirsi un'immagine e la sfruttò piuttosto bene e questo non mi sembra proprio un delitto, anzi. L'ispirazione del Davis elettrico detiene gli stessi punti interrogativi che ho appena elencato per la musica di Coleman.

La grande capacità musicale di Coleman emerge per l'appunto in questo straordinario album live doppio, registrato in Svezia nel 1965. Il quartetto colemaniano si è sciolto definitivamente da un paio di anni, con Charlie Haden e Don Cherry rivolti alle loro legittime ispirazioni di leadership e Billy Higgins diventato uno dei batteristi più richiesti del mondo, anche al di fuori della stretta osservanza "free". Ornette mise dunque insieme questo trio che dimostrò a chi non voleva restare eternamente cieco che ci si trovava di fronte ad un vero maestro del jazz moderno e non ad una povera controfigura. La scelta di incidere per Blue Note è particolarmente rivelatrice delle intenzioni del leader: Live At The "Golden Circle" è infatti un disco ben piantato nella tradizione jazz, rivisitata però con uno stile che potremmo definire "visionario". Tra questi solchi Coleman supera brillantemente la prova di riempire gli spazi con il suo contralto. Certo non è torrenziale come un Sonny Rollins, ma riesce alla perfezione a tenere in mano l'improvvisazione, senza perdere lo swing per un secondo. Quando poi parte European Echoes (nella ristampa in cd del 2001 riproposta in due versioni; una da 7' 53" che era quella già nota ed una di 14' 13" ancora più bella) la magia è tale che si fa fatica a credere che anni fa potessero esserci dubbi sulle capacità jazzistiche di quest'uomo. Considerazioni analoghe valgono per il brano Morning Song (anch'esso proposto in due take nella meritoria edizione rimasterizzata dal grande Rudy Van Gelder, rispettivamente da 10' 41" e 8' 16")

David Izenzon è stato forse il contrabbassista più sottovalutato della storia del jazz, ma la sua forza espressiva non ha niente da invidiare al tanto decantato stile di un Charlie Haden (anzi). Un altro ottimo motivo dunque per riascoltare Live At The "Golden Circle".

Per me, unitamente a Chappaqua Suite dell'anno successivo, si tratta del più bel disco di Coleman uscito dopo il 1960. Dite che Pat Metheny se ne offenderà?

 Lorenzo Allori