Il disco mette in chiaro le cose già dalla grafica: sulla copertina, in un bianco e nero spettrale, un cadavere molto simile al Cristo riposa a mani giunte sopra un letto di marmo, avvolto da drappi, mentre alcune figure piangono nell'ombra la sua morte, tre di esse gravi, ma composte, serie e a capo chino, una quarta, una donna, riversa a terra incapace di trattenere la sua disperazione. Il mutismo freddo della morte risalta dunque già da subito e si trasferisce, ovviamente, dall'involucro, privo come sempre di qualsiasi notizia sui componenti del gruppo, alle canzoni. Lo stile, come detto, è sempre quello: il basso e la batteria su di tutti, la chitarra fa brevi ed incisive comparse, ed è tutto molto rapido, come improvvise ed austere apparizioni, appunto nell'ombra. La voce di Ian Curtis è forse più evanescente e nebbiosa di sempre, ma probabilmente l'effetto è generato in chi la ascolta dalla consapevolezza della sua morte, inaspettata e violenta, avvenuta solo un mese prima dell'uscita del disco per impiccagione. E' uno di quei dischi da ascolare più volte, e appena finisce farlo ricominciare, perché segue i ritmi della tua anima e risponde agli impulsi del tuo cuore in maniera arcana, istintiva, naturale. Da ascoltare assolutamente in cuffia, al buio, accucciati su se stessi, con le gambe raccolte al petto, avvolte dalle mani, per compiere un viaggio nel profondo di una vita il cui senso troppo spesso sfugge e che Closer fa balenare in rapidissimi barbagli proprio sopra i nostri occhi chiusi. Quel senso tanto inseguito si avvicina vertiginosamente, ma per lo stesso motivo rimane ancora più irraggiungibile. Closet in definitiva è un monumento alla musica, alla poesia, alla cupa visione della vita, al grigior decadente della nostra civlità. "80 all'ora" |