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ARCADE FIRE Discografia

 

Se c'è una band che nel nuovo millennio ha segnato profondamente la scena indie-pop e che ha contribuito pesantemente a riportare l'art rock all'attenzione mondiale quelli sono senza dubbio gli ARCADE FIRE. Nati a Montreal, nel 2001, per volere di Win Butler e di sua moglie Regine Chassagne, sono un collettivo eterogeneo e aperto alle influenze più disparate. La coppia rappresenta il cuore del progetto, il catalizzatore creativo, la scintilla che innesca un motore fatto di arrangiamenti imponenti, gusto barocco, sentori blues, new wave e folk. In un unico, creativamente caotico pacchetto che si presenta alle nostre orecchie come qualcosa di totalmente nuovo. I coniugi Butler, dopo alcuni cambi di formazione iniziali, assestano la propria line-up per il loro debutto, anche se è molto difficile stabilire "chi suona cosa". Sin da subito, la band si caratterizza per un grande eclettismo tecnico, tutti i suoi componenti sono polistrumentisti e si scambiano, quasi al volo, i ferri del proprio mestiere. La cosa diventerà ancora più evidente durante i live, una caratteristica che rende i loro show ancor più interessanti e coinvolgenti. Ad ogni modo, si aggiungono alla band Richard Parry (principalmente alla chitarra), Tim Kingsbury (basso), Will Butler (fratello del leader della band, alle percussioni ed al basso), Sarah Neufeld (violino) e Jeremy Gara (percussioni).

 
Poche band al mondo hanno confezionato un album d'esordio così fulminante. FUNERAL (2004 - ****) è uno dei dischi fondamentali degli anni 2000 e lancia la band, sin da subito, in una dimensione altra e più alta rispetto alle band contemporanee. Butler scompone e ricompone il concetto di pop attraverso un'opera che si incunea all'interno di altri generi musicali e li riadatta per il nuovo millennio.

Tutto il disco è pervaso da una magniloquenza barocca sospesa, come se i Talking Heads ed i Sonic Youth avessero trovato un punto d'incontro che deflagra all'interno delle armonie del gruppo canadese: il piano sul quale si costruisce la splendida intelaiatura crescente di Rebellion (Lies); il dramma sonoro vivacizzato dallo xilofono e dal violoncello di Neighborhood #3 - Power Out; l'ariosa e inneggiante atmosfera di Wake Up; l'omaggio alla terra natia della Chassagne e al voodoo di Haiti ed il marziale grido d'amore di Crown Of Love, sono i pezzi più belli di un album che sarà da subito indimenticabile. Ossimoro di un titolo che contrasta inesorabilmente con il contenuto dei pezzi, tutti pervasi da un mistico senso di leggerezza, ma anche di profonda ricerca stilistica e personale. Basti pensare che nel disco, oltre alla già citata formazione ufficiale, suoneranno qualcosa come 15 musicisti e si adopereranno strumenti come l'arpa, il corno e la fisarmonica. Perfetti esecutori, arrangiamenti precisi e produzione impeccabile. Tutto suona come dovrebbe suonare. Scalda il cuore, passa in rassegna le emozioni più sopite, ti fa venire voglia di urlare dalla gioia ed un attimo dopo di rannicchiarti in un angolo della stanza più buia avvolto dai tuoi pensieri. Un miracolo sonoro. Un miracolo che molti non credevano possibile.

Dopo l'esordio, piovono gli attestati di stima: da David Bowie, che suona con loro in qualche data, agli U2 che li vogliono al loro fianco durante il "Vertigo Tour", passando per Chris Martin dei Coldplay che li definirà (gufata? O gelosia?) "la più grande band del mondo". Chiaro che le aspettative sono già diventate esorbitanti. E per non sbagliare, il secondo lavoro è una sorta di "Funeral bis". Un bis che è comunque nettamente sopra la media della maggior parte dei lavori della scena alternative. NEON BIBLE (2007 - ****)" è la conferma presso il grande pubblico. Registrato in una vecchia chiesa sconsacrata del Quebec ci regala echi alla Velvet Underground (Black Mirror), omaggi sparsi a Brian Eno e Bowie (soprattutto in Keep The Car Running e No Cars Go), una new wave che non scimmiotta nessuno ma che traccia una via canadese precisa e riconosciuta a livello mondiale. Intervention è una colossale messa popolare incalzata da un poderoso organo talmente trascinante da portarti vicino alle lacrime. Ma è con My Body Is A Cage che i nostri raggiungono la vetta del disco: mesmerizzante e seducente, nera e caotica, un'esplosione di sensualità e funereo ipnotismo, un lento ed inesorabile blues che entra nelle vene e che esplode quando è vicino al cuore. "Set my body free..." canta Butler, la carnalità che rinchiude l'anima nello spazio angusto del corpo e che è pronta a spiccare il volo. Probabilmente, il pezzo più bello della loro intera discografia. La chiusura naturale di un album che conferma la qualità eccelsa di un gruppo che si diverte a destrutturare le convinzioni musicali di base sbeffeggiando tutti coloro che proseguono da tempo la snervante e stancante litania de "nella musica ormai è già stato detto tutto".

Il terzo lavoro obbliga, irrimediabilmente, la band ad un cambio di registro. Win Butler e soci sentono che è il momento buono per il concept. E con THE SUBURBS (2010 - ***½) tentano di descrivere la vita quotidiana nei sobborghi delle grandi città. Alternando momenti decisamente rock (Month Of May, Ready To Start) e cantilene pregne di atmosfera (Rococo, Modern Man) il disco suona senza dubbio più accessibile dei primi due. In esso convivono sapientemente il blues degli esordi ed una buona strizzata d'occhio all'aspetto più "easy-listening". Da citare, in tal caso, l'esempio di Sprawl, canzone divisa in due parti che è lo specchio più fedele dell'album: Flatland è una orchestrale, lenta e pomposa progressione armonica mentre Mountains Beyond Mountains è quasi un pezzo dance, dove compaiono sintetizzatori che si legano al piano e che vogliono far muovere l'ascoltatore e farlo ballare col braccio alzato ed un dito rivolto verso l'alto. Il disco inizia descrivendo la città ed i suoi difetti (ma anche diversi pregi) e piano piano ci conduce fuori dalle mura della civiltà. Man mano che ci si avvicina alla fine dell'album ci si rende conto dello spaesamento suburbano e di quanto sia importante andare a riscoprire quel sentimento che sta esattamente a metà strada tra la gioia e la malinconia. Questo è il grande merito di questo lavoro. Ed è anche il grande merito degli Arcade Fire che abbandonano gli arrangiamenti complicati ed intrecciati e scoprono una altisonante semplicità. Dove la musica zoppica, arriva l'emozione. E non è cosa di poco conto.

Si arriva così al 2013. L'attesa per l'ultimo lavoro della band diventa spasmodica man mano che la data annunciata si avvicina. Addirittura, nelle settimane precedenti, a Parigi ed in altre città, compaiono simboli che richiamano al titolo del nuovo album. C'è chi vede in questi addirittura dei segni esoterici e massonici. Saranno delusi.

Per il quarto lavoro, Butler affianca all'ormai già rodato Marcus Dravs, quel James Murphy che è stato mente e corpo del progetto LCD Soundsystem ma che non potrebbe essere personaggio più lontano dalla concezione musicale avuta, fino a quel momento, dalla band di Montreal.
In ogni caso, il risultato di questa unione, genera REFLEKTOR (2013 - ***), un album che è un vero e proprio shock per chi si aspettava il disco del secolo ma anche per chi si era appassionato alle sonorità ormai riconoscibilissime della band. Copertina dedicata al mito di Orfeo e Euridice e doppio disco che purtroppo suona prolisso e leggermente logorroico.  
La band ha perso quell'immediatezza che l'aveva resa unica al mondo: We Exist ha il basso iniziale di Billie Jean di Michael Jackson e si snoda in una ampia ma fine a sé stessa elegia dell'indie-dance; il singolo Reflektor toglie i Sonic Youth dall'equazione per aggiungerci gli ABBA; il caos da cittadina caraibica sovraffollata di Here Comes The Night Time procede marziale ma ponderato. C'è da dire che Butler non ha perso il tocco magico in merito ad alcune sue composizioni: Afterlife, per esempio, è il miglior pezzo del disco. Una ottima combinazione di linee granitiche di synth e batteria e la tipica "nenia" del leader che si appoggia dolce rassicurante su un ritornello impostato su di un basso sicuro ed avvolgente. Porno si fa piacere per la sua espressività da "buco della serratura" e intima pensieri tipicamente notturni, mentre la faccia più rock and roll è salvata solo da Normal Person. Il problema generale del disco è probabilmente la produzione di Murphy, impostata su una netta rottura col passato e gestita come un'opera senza coordinate precise. Gli Arcade Fire abbracciano tutto e niente, tagliano diversi ponti col passato e abbracciano categorie mai toccate prima: i patiti del dancefloor, gli amanti del pop classico ed i nostalgici anni 80. Un album quanto mai controverso , esaltato da tanti e denigrato da molti. Il disco della consacrazione mondiale ma anche un passaggio di rottura. Che a questo punto necessita di un nuovo capitolo per capire se si tratta di un'infatuazione passeggera o di una nuova realtà consolidata.
  Alberto Niccolai