Mentre il clamore di un singolo di grandissimo impatto come Jumpin’ Jack Flash (discendente diretto del rock n’roll di Chuck Berry) inizia a metterli in competizione con i Beatles, i Rolling Stones gettano sul tavolo il loro primo capolavoro. The Aftermath (1966 - ****) è l’annunciazione della swingin’ London e del rock psichedelico esattamente come il coevo Revolver dei Fab Four. Le sessiste e violente Stupid Girl e Under My Thumb aumentano lo scandalo intorno a questi poco raccomandabili discoli, mentre grandi suggestioni pop vengono profuse in Mother’s Little Helper, Out Of Time, Paint It Black e nella barocca ballata Lady Jane. Jagger & Richards sono ormai (quasi) come Lennon & McCartney. Il momento è propizio per fotografare l’energia live del gruppo. Esce così lo smilzo dischetto Got Live If You Want It! (1966 - ***) che è più che altro una scusa per inserire su un album ufficiale alcune delle canzoni sparse sui singoli (Get Off Of My Cloud, 19th Nervous Breakdown), un’entusiastica cover di Not Fade Away di Buddy Holly & The Crickets ed il buon inedito Fortune Teller. Da questo momento inizia un momento di appannamento che vede gli Stones arrancare dietro alla magniloquenza psichedelica dei Beatles. Between The Buttons (1967 - ***) non è malvagio solo perché contiene la famosa ballata Ruby Tuesday e lo sferzante rock di Let’s Spend The Night Together. Il resto non è indimenticabile, anche se la critica è benevola. Con tanto di copertina allucinata, Their Satanic Majesties Request (1967 - **) è il tentativo degli Stones di suonare meno blues e più lisergici. La California è però parecchio lontana. Si salva solo 2000 Man che negli anni ‘70 diventerà un successo per i Kiss. Incredibilmente (per gli standard dei Rolling Stones degli anni ’60) dall’album non viene estratto nessun singolo di successo. Con Brian Jones sempre più emarginato e la leadership saldamente nelle mani del duo Jagger & Richards, gli Stones tornano a fare quello che gli riesce meglio, cioè il rock n’roll. Beggar’s Banquet (1968 - *****) è la prima avvisaglia di una serie sbalorditiva di dischi epocali tutti in sequenza. Qui c’è l’inno satanico Simpathy For The Devil e quello barricadero Street Fighting Man, solo per limitarsi alle canzoni più famose; ma poi ci sono anche No Expectations, Parachute Woman, Stray Cat Blues e la deliziosa Salt Of The Earth. Mick Jagger è istrionico come non riuscirà più ad essere in futuro. Rock N’Roll Circus (1968 - ***1/2) ci mostra gli Stones dal vivo in uno studio televisivo con illustre compagnia (The Who, John Lennon & Yoko Ono, Marianne Faithfull, Jethro Tull). Non imprescindibile, ma interessante. La giubilazione di Brian Jones, che era nell’aria da tempo, rende gli Stones ancora più forti e poco importa se l’amico viene trovato morto a casa sua in circostanze ancora oggi misteriose. Il gruppo vira decisamente su un sound americano ingaggiando momentaneamente il pianista Nicky Hopkins (già Jeff Beck Group) e la slide del divino Ry Cooder. Il posto di Brian Jones viene invece definitivamente occupato dal giovanissimo prodigio della chitarra blues Mick Taylor (già nei Bluesbreakers di John Mayall). Let It Bleed (1969 - *****) è ancora superiore al predecessore in studio con lo strisciante country blues di Honky Tonk Women, il blues elettroacustico Love In Vain (strepitosa cover del classico di Robert Johnson) e la sguaiata title track. Avete necessità di un tour de force strumentale da sfruttare in concerto? Ecco a voi Midnight Rambler. Volete la canzone pop definitiva? Ecco You Can’t Always Get What You Want. Volete sentire il caldo umido appiccicoso del Delta del Mississippi? Ecco Gimme Shelter da consegnare alla leggenda del rock. Keith Richards mostra poi notevoli doti canore nell’ottima You Got The Silver. Il miglior disco dal vivo della storia del gruppo si intitola Get Yer Ya-Ya’s Out! (1970 - ****) ed è l’apoteosi del nuovo chitarrista Mick Taylor. Strepitose Jumpin’ Jack Flash, Stray Cat Blues, Midnight Rambler, Live With Me e Honky Tonk Women. L’America è ai loro piedi e loro la ripagano con un discusso tour che culminerà con il massacro di Altamont. L’aura sinistra che si spande intorno alla band non è solo una trovata pubblicitaria del management. Gli Stones passano da uno scandalo all’altro e Keith Richards è da anni schiavo dell’eroina. Il tutto traspare in Sticky Fingers (1971 - *****), un album che gronda letteralmente sangue, sperma e droga. Le spettacolari Brown Sugar e Sister Morphine parlano esplicitamente della “gioia del buco”, mentre le tematiche sataniche riappaiono con forza nell’ambigua Sway. Il sessismo spavaldo tipico del gruppo torna con la fiatistica Bitch, mentre pochi notano il grido di dolore di Can’t You Hear Me Knocking o della bellissima ballata Wild Horses. Le note sudiste di Dead Flowers anticipano poi il futuro prossimo. Durante uno strano esilio fiscale nei pressi di Nizza in compagnia, tra gli altri, di Gram Parsons, nuovo eroe del country rock, un gruppo ormai a pezzi, con polizia e giornalisti alle costole licenzia il proprio capolavoro definitivo. Si chiama Exile On Main Street (1972 - *****) ed è un doppio album corale e compatto, fatto di country e blues e privo di singoli di grande successo. Si ricordano Rocks Off, Rip This Joint, Sweet Virginia, The Loving Cup e Shine A Light; mentre Happy e Tumbling Dice rimarranno a lungo nel repertorio dei concerti. Se amate il rock, non potete non conoscerlo a menadito. L’ascesa artistica degli Stones si arresta con Goat’s Head Soup (1974 - ***) al quale non bastano i consueti ammiccamenti luciferini ed una delle ballate più belle dell’intero repertorio (Angie) per raggiungere il livello dei predecessori. Mick Taylor saluta la compagnia con un disco contraddittorio come It’s Only Rock N’Roll (1975 - ***1/2) nel quale trovano posto la splendida title track (un vero e proprio manifesto programmatico) e l’assolo infinito di Time Waits No One, ma anche troppi riempitivi. L’arrivo del nuovo chitarrista (Ron Wood, ex Jeff Beck Group e Faces), sottolinea ancora di più il lato ludico di Jagger e Richards, i quali rimangono folgorati dalla musica di Bob Marley e tingono di reggae le proprie composizioni con il controverso Black & Blue (1976 - ***). Il gruppo guadagna molti nuovi fan grazie ai singoli Hey Negrita!, Fool To Cry e Hot Stuff, ma la critica storce il naso. Love You Live (1977 - ***) è forse il disco dal vivo più famoso della band. Registrato durante le date parigine del Black & Blue Tour, vede gli Stones scivolare sui brani più energici ed invece rendersi giustizia con le ballate. Questa volta è la moda della disco music e del funk revival ad ispirare il successivo Some Girls (1978 - ***1/2), senza dubbio uno dei migliori episodi degli Stones post Exile. Il singolo Miss You, caratterizzato da un ritmo pigramente ballabile, diventa la loro canzone più nota dopo Satisfaction e Jumpin’ Jack Flash. Il meglio del disco però risiede in Beast Of Burden, Some Girls e nella convincente cover di Just My Imagination dei Temptations. |