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THE WATERBOYS Discografia

  

I Waterboys si formano ad Edimburgo all’inizio degli anni ’80. Il nome deriva da una frase contenuta su una bellissima canzone di Lou Reed (The Kids – da Berlin, 1973). Fin da subito la leadership del complesso è saldamente nelle mani del cantante e chitarrista Mike Scott.

Il primo album si intitola semplicemente The Waterboys (1983 - **) ed è ancora molto acerbo, mettendo in mostra un ensemble incerto se esplorare lo stile new wave in voga in quelli anni, o puntare decisamente verso il folk revival. I punti di riferimento sono chiaramente i Dexys Midnight Runners ed i Boomtown Rats, ma Scott mostra già una voce molto particolare che lo farà sicuramente risaltare dalla moltitudine di band britanniche di quel fecondo periodo. La canzone migliore del disco si intitola A Girl Called Johnny ed è un appassionato omaggio a Patti Smith.

Mentre nelle classifiche di tutto il mondo furoreggiano gli U2 con il loro War, i Waterboys battono sentieri simili con A Pagan Place (1984 - ***), sfoggiando però un muro del suono, arricchito dai fiati, che gli Irlandesi non possiedono. Ascoltando i singoli The Big Music e All The Things She Gave Me si capisce già alla perfezione dove andrà a parare il ribelle Scott con la sua incerta dentatura da rugbista e la sua zazzera scapigliata.

 
 

Il mondo non è del tutto preparato all’uscita di un capolavoro del calibro di This Is The Sea (1985 - *****), tant’è che in molti si accorgono solo dell’incantevole singolo The Whole Of The Moon. In questo album invece l’arte declamatoria del leader arriva ai massimi livelli e gli arrangiamenti risplendono grazie alla bravura del polistrumentista Karl Wallinger (un vero e proprio direttore musicale). La scaletta è perfetta in ogni suo angolo, ma gli occhi furtivi del tarantolato cantante sembrano vedere più in là del resto del mondo nelle epiche Don’t Bang The Drum e The Pan Within. Che sia Mike Scott il vero “nuovo Dylan”? Intanto occorre stare zitti e godersi le ondate di tensione e rilascio della title track (There Was A River….But This Is The Sea!) o l’ambientazione vecchio stile della ballata Old England. La versione deluxe di questo disco è semplicemente spettacolare.

Wallinger esce dalla band (rimarrà solo come collaboratore occasionale) per dedicarsi al suo progetto solista World Party (veramente niente male) e Scott, invece di scoraggiarsi, ingaggia il virtuoso del violino Steve Wickham ed imbarca i suoi in uno straordinario tour mondiale la cui testimonianza più reale è rappresentata dall’infuocato doppio dal vivo The Live Adventures Of The Waterboys (1986 - *****). Una sarabanda zingaresca decisamente combat folk (ascoltate la strumentale Meet Me At The Station) con l’unica pecca di una registrazione non sempre esente da critiche. Le suggestioni sono le stesse della Rolling Thunder Revue di Bob Dylan, ma qui l’impeto è ancora maggiore. Ci sono diverse anticipazioni dell’epocale disco successivo ed una scelta di cover semplicemente splendida: Death Is Not The End di Bob Dylan, Purple Rain di Prince, And The Healing Has Begun di Van Morrison (che sembra scritta apposta per le qualità vocali di Scott). Il momento clou del concerto si ha quando The Pan Within si congiunge magicamente con la Because The Night del duo Smith / Springsteen. Di difficile reperibilità, ma da ricercare.

Dopo la conclusione del tour il gruppo si chiude per due anni in uno studio irlandese ed esce con un capolavoro di purissimo folk. Fisherman’s Blues (1988 - *****) è il Basement Tapes degli anni ’80, anzi di più, è Basement Tapes + Liege & Lief. Ed infatti il violinista Steve Wickham agisce da catalizzatore del talento compositivo della band esattamente come Dave Swarbrick aveva fatto tanti anni prima per i Fairport Convention. Dalla scaletta del’album vengono escluse circa settanta canzoni (di cui molte saranno recuperate in seguito), ma quelle che vengono scelte sono strepitose; sopra ogni aspettativa. Fisherman’s Blues, We Will Not Be Lovers, Strange Boat, World Party (l’ultimo regalo di Wallinger ai Waterboys), And A Bang On The Ear, When Ye Go Away e la nobilissima cover di Sweet Thing di Van Morrison stanno nell’Olimpo del folk rock. Chiude This Land Is Your Land di Woody Guthrie: come un viaggio che abbracci Scozia e Stati Uniti passando per l’Irlanda.

  

I Waterboys puntano ancora di più sul folk tradizionale con il successivo doppio album Room To Roam (1990 - **), che misteriosamente gode di buona stampa, nonostante il confronto impietoso con i precedenti capolavori. Si salvano le romantiche In Search Of A Rose ed A Man Is In Love.

Scott a questo punto diventa tirannico e perde di vista la realtà. Caccia i collaboratori più fidati e si intestardisce ad irrobustire la propria musica in senso rock.

Dream Harder (1993 - **) scontenta così tutti: critica e pubblico. La band si scioglie ed il leader inizia una tormentata carriera solista tra l’indifferenza più totale.

Dopo due dignitosi album solisti, Mike Scott pensa che tutto sommato lui è i Waterboys e così rispolvera la leggendaria sigla per un terzo modesto lavoro solista, intitolato A Rock In The Weary Land (2000 - *1/2), peraltro caratterizzato da un aberrante uso dell’elettronica. Peccato di superbia.

Una parte del tesoro delle registrazioni perdute di Fisherman’s Blues viene alla luce con l’ottimo Too Close To Heaven (2001 - ****), che alinea dieci grandi canzoni. Questi sono i Waterboys che tutti vogliono ascoltare. L’album si snoda in direzione più soul rispetto al passato, a parte la delizia acustica di On My Way To Heaven. Colpiscono il segno Blues For Your Baby, Custer’s Blues e gli oltre dodici minuti del peana mozzafiato di Too Close To Heaven (una This Is The Sea parte seconda di cui nessuno può lecitamente lamentarsi).

 

Steve Wickham rientra nel gruppo ed i Waterboys tornano a sfornare un buon album di ballate intitolato Universal Hall (2003 - ***). Si tratta di un disco inquadrabile nel fenomeno del “rock cristiano”, con la consueta poetica epica del leader. I brani da ricordare sono This Light Is For The World, The Christ In You, Every Breath Is Yours, Peace Of Iona e la splendida title track.

 
 

Ogni tanto viene usata anche l’elettronica, ma non è mai invadente come nello sciagurato caso di A Rock In The Weary Land.

Il secondo live album della carriera, intitolato Karma To Burn (2005 - ***1/2) lascia parzialmente da parte il folk per puntare su un vibrante rock elettrico. Mike Scott non è per niente credibile nel cantare The Return Of Jimi Hendrix, ma a lui va bene così. I brani migliori sono Long Way To The Light, Medicine Bow, Fisherman’s Blues, Come Live With Me e soprattutto Bring ‘Em All In. Sono invece francamente troppi tredici minuti di jam per la ripetitiva The Pan Within.

La sbornia di rock purtroppo continua con il deludente Book Of Lightning (2007 - **). Se il meglio della scaletta è rappresentato da uno scarto di Fisherman’s Blues (la gradevole You In The Sky), vuol dire che si è veramente alla frutta.

Dopo la frutta però talvolta c’è il dolce! Ecco che Scott rispolvera coraggio, strumenti a fiato e strumenti a corda, per rendere un sentito omaggio al poeta irlandese William Butler Yeats. Già in Fisherman’s Blues i Waterboys avevano musicato con successo una poesia di Yeats (The Stolen Child); qui addirittura viene sottoposto a questo processo del materiale bastevole per un intero disco.

 

An Appointment With Mr. Yeats (2011 - ***1/2) è un lavoro convincente che ha la sola pecca di limitare l’apporto di Wickham, privilegiando gli arrangiamenti fiatistici. Da Song Of Wandering Aengus il violinista entra però in campo e talvolta si toccano gli antichi splendori.

Grande folk in A Full Moon In March, Mad As The Mist And Snow e September 1913. Bentornati!


Fisherman's Box (2013 - *****) pone finalmente una voce pressoché definitiva sulle tumultuose ed estenuanti sessions del disco migliore dei Waterboys. Quasi tre anni di registrazioni condensate in sei cd racchiusi in un elegante box giallo.

Se da un lato pare evidente che le parti migliori del repertorio erano effettivamente quelle poi incluse nella versione originale di Fisherman's Blues e nel suo seguito Too Close To Heaven, d'altro canto questi sei cd rappresentano un tesoro non meramente filologico. Ci sono gighe folk, soul, un pizzico di country e tanto rock n'roll tra questi solchi; un materiale così profondo e stratificato che ha corrispondenze solo con i dylaniani Basement Tapes. Del resto ci sono ben sei cover di brani di Bob Dylan, ad ulteriore sottolineatura della discendenza diretta tra il vate di Duluth e Mike Scott.

Ci sono tre anime piuttosto riconoscibili all'interno del repertorio di Mike Scott: quella folk ed acustica, quella epicamente rock (la cosiddetta "big music" degli inizi dei Waterboys) e quella elettrica di matrice soul / rhythm n'blues. Io ho sempre diffidato dell'ultima che, eccetto qualche piccola notevole eccezione (Too Close To Heaven), mi ha sempre riservato cocenti delusioni.
 Modern Blues (2015 - ***1/2) invece, pur facendo parte del repertorio elettrico della band, è un disco di onesto rock blues, fatto proprio come si deve. Al solito Scott è autore peculiare, che distilla con parsimonia le idee melodiche e si trova particolarmente a suo agio sui brani più lunghi ed articolati.

Ecco perché November Tale, Nearest Thing To Hip e soprattutto Long Strange Golden Road sono la parte migliore del disco. Chitarre elettriche, armonica, violino, sax e tanto organo sono i sapori principali di quello che si potrebbe definire il "pub rock album" dei Waterboys.

                                Lorenzo Allori