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Tim Buckley - Discografia

Nato a Washington D.C., Tim Buckley viene inizialmente confuso nella scena folk revival del Greenwich Village di New York City, per poi invece diventare uno dei riferimenti musicali della Los Angeles freak (insieme ai Love, ai Mothers Of Invention di Frank Zappa ed a Captain Beefheart & His Magic Band). Messo sotto contratto dalla casa discografica Elektra, fin dai primissimi album, Tim mise a punto un'ottima tecnica chitarristica ed una voce fuori dal mondo (quattro ottave e mezzo di estensione!!!!), ma anche una preoccupante tendenza all'autodistruzione.

Tim Buckley (1966 - ***) è un esordio ancora acerbo e registrato velocemente, ma riesce comunque a colpire, non tanto per la presenza di collaboratori illustri (Van Dyke Parks al pianoforte, Jack Nietzsche agli arrangiamenti, Jac Holzman e Paul A. Rothchild come produttori), semmai per l'originalità delle canzoni e per una voce destinata a rimanere insuperata nei secoli. I punti di riferimento più ovvi per la sua musica sono in quel momento i cantanti folk Tim Hardin e soprattutto Fred Neil. Fin da qui inizia l'eterno sodalizio artistico di Buckley con il chitarrista Lee Underwood.

Un discreto successo accompagna Goodbye And Hello (1967 - ****), che già chiude la parte della sua carriera dedicata al cantautorato più ortodosso. Qui ci sono alcune delle canzoni più sentite e romantiche di Buckley (Once I Was, Morning Glory, la crudele I Never Asked To Be Your Mountain dedicata alla moglie ed al figlio abbandonati a New York City per ricercare il successo discografico in California). L'influenza di Fred Neil viene però spezzata dal falsetto insostenibile per gli umani di Pleasant Street e dalle tracce psichedeliche Hallucinations e Phantasmagoria In Two. Goodbye And Hello è un piccolo classico che ha avuto la sfortuna di uscire in un anno pregno di capolavori epocali.
 

Dalle sessions dell'album, nel 2016, verrà tratto un disco di provini per sola chitarra acustica e voce (con sei canzoni assolutamente inedite) chiamato Lady, Give Me Your Key (**1/2). Si tratta di un disco assolutamente inutile, del quale Tim non avrebbe sicuramente mai concesso la pubblicazione.


Live At Folklore Center, NYC (1967 - ****) è la cronistoria di un applaudito ritorno a casa del cantautore all'apice della propria fama. Il Folklore Center è un piccolo negozio di dischi del Greenwich Village, divenuto casualmente tempio della nuova musica folk. Nel marzo del '67 Tim vi ci entra e mette tutti KO con le canzoni del suo ultimo disco e con altre delizie assortite come The Dolphins (cover tratta dal coevo disco omonimo di Fred Neil), Troubador e Cripples Cry. Quest'ultima è una delle sue migliori canzoni ed è rintracciabile soltanto in questo disco dal vivo.

Tim parte per un tour mondiale per promuovere la propria musica, ma la sua fragilità emotiva inizia a farsi sentire con un sempre maggiore utilizzo di alcol, acidi ed eroina. Assolutamente da non perdere è comunque il doppio album dal vivo Dream Letter: Live In London 1968 (****), in cui il nostro suona per oltre due ore ed inizia a far vedere la mutazione musicale in atto, che diverrà conclamata di lì a pochi mesi. The Earth Is Broken e Strange Feelin' sono un ponte lanciato verso un futuro anche fin troppo posteriore.

Il capolavoro della carriera di Buckley arriva con quello che per altri sarebbe un semplice disco di transizione. Happy Sad (1969 - ****1/2) è invece il miglior esempio di folk psichedelico di un'epoca in cui nessuno ha paura a sperimentare sul serio. Strange Feelin' e Buzzin' Fly sono da brividi, ma è con gli oltre dodici minuti allucinati della tribale Gypsy Woman che la premiata ditta Buckley / Underwood è destinata ad entrare nella leggenda dalla porta principale.

Album sottovalutato e poco venduto, eppure comunque bellissimo, Blue Afternoon (1969 - ****) rimane sul mood psichedelico del predecessore. Happy Time sembra una cartolina proveniente direttamente dai primi anni di carriera, poi però si ricomincia con i modernismi e con lo stordimento (anche dato dagli incredibili vocalizzi del cantautore). Chase The Blues Away, The Train e soprattutto The River sono i brani da riscoprire.

Il momento in cui la ricerca del viaggiatore delle stelle inizia ad essere davvero impervia può essere rintracciato nell'album dal vivo Live At The Troubadour (1969 - ***1/2), in cui sembra già impossibile che il pubblico losangelino possa seguirlo così in alto. Il paradigma è dato dagli oltre undici minuti quasi improvvisati di I Don't Need It To Rain.

La ricerca sonora di Tim Buckley, complice anche un'inaspettata lucidità personale, diventa ancora più ostica con l'inizio del nuovo decennio. Ormai Tim intende creare una nuova forma di folk, non mischiandolo più soltanto con la psichedelia, ma anche con le avanguardie free jazz, con le culture ancestrali dell'Africa nera e con qualche timido trattamento elettronico. Lorca (1970 - ***1/2) è la prima creatura aliena nata da questo mutamento profondo. Le liriche sono vagamente ispirate dalla poesia di Federico Garcia Lorca, mentre la musica è una calata infernale negli abissi dell'anima di un uomo. La forma canzone scompare felicemente in lunghe divagazioni jazzate come Driftin' e Nobody Walkin'.
Starsailor (1970 - ***), a distanza di così tanti anni, resta un album che fa discutere. Non venne capito all'uscita ed è stato progressivamente rivalutato in tempi più recenti, in particolare a partire dagli anni '90. Gli esperimenti vocali di Buckley in Starsailor hanno ispirato legioni di cantanti (un nome su tutti è quello di Bjork), per un viaggio astrale che punta davvero ai confini della galassia.
 

Io resto comunque poco convinto del valore generale dell'opera, poiché pur sempre di canzoni si tratterebbe ed invece qui sparisce il tempo, le melodie si attorcigliano come nei migliori album di Albert Ayler ed in sostanza si costringe l'ascoltatore a trattenere il fiato per riuscire a cogliere il disegno concepito dall'artista. Se Happy Sad è grande arte moderna, Starsailor è quindi un'installazione di arte contemporanea. A dispetto di tutte queste considerazioni questo è il suo album più quotato per il contributo dato all'evoluzione della musica popolare e perché contenente la sua canzone più famosa, la bellissima Song To The Siren (che negli anni '80 fu anche un piccolo hit nella versione dei This Mortal Coil).

Amareggiato dal totale insuccesso di Lorca e Starsailor, Tim si ritira momentaneamente dal mondo della musica e ritorna dipendente dalle droghe pesanti (adesso inizia ad assumere sia cocaina, sia eroina). Il suo nuovo punto di riferimento diventa Curtis Mayfield ed in effetti, quando ritorna sulle scene, è un cantautore completamente cambiato. Greetings From L.A. (1972 - **1/2) strizza inaspettatamente l'occhio al funk sinfonico di Isaac Hayes di Hot Buttered Soul e cavalca sonorità che di lì a poco avrebbero contraddistinto la produzione discografica di Al Green. La vocalità di Buckley risente però pesantemente del paragone con i grandi maestri della black music, non possedendo la necessaria carnalità che è richiesta all'interpretazione del funk e del soul.

Prima della fine di una delle vicende più tumultuose della storia del rock, un artista sempre più isolato ed ignorato dal mondo, riesce comunque a realizzare un discreto album di white soul. Sefronia (1973 - ***) rappresenta la normalizzazione elettrica perfino per la chitarra di Lee Underwood. La cover di The Dolphins del maestro Fred Neil, viene incisa per la prima volta in studio, poi c'è spazio per una torrida Honey Man e per una bella resa del traditional Sally Go ‘round The Roses, che Buckley aveva imparato dai Pentangle di Basket Of Light. 

Look At The Fool (1974 - **) è davvero il canto del cigno. Completamente preda delle proprie dipendenze, Buckley segue una parabola umana curiosamente similare a quella di Phil Ochs (compresi i repentini ed anacronistici scarti artistici). Tim muore nel mezzo di un tour americano che sembrava potesse rinverdirne la popolarità, a causa di un'involontaria overdose di eroina, nel giugno del 1975. Aveva solo 28 anni.

Once I Was / The Copenhagen Tapes (**1/2) sono album che assemblano pezzi dal vivo tratti da concerti avvenuti in epoche completamente diverse. Sono sorprendentemente valide la canzoni registrate durante il tour del 1974, classiche nella loro quiete grazia tenorile le interpretazioni della prima parte di carriera, francamente registrate malissimo quelle del periodo più sperimentale.
 
 Lorenzo Allori