JEFF BUCKLEY - Grace
Lo so, anche i Radiohead, i Nirvana, anche i Portishead meriterebbero. Ma non importa. Il mio disco degli anni ’90, almeno in area generalmente rock, è "Grace", opera prima e unica di Jeff Buckley, figlio d’arte suo malgrado. C’è il fuoco, la passione, ci sono canzoni splendide, una voce fuori dal comune e una maledetta voglia di andare oltre, oltre gli steccati di un rock ingessato e la memoria di un padre mai presente in vita e molto, troppo, nelle richieste dei discografici e dei fans dell’ultima ora. | Proprio quella voglia di osare che, per le strane ironie del destino, aveva segnato l’intera carriera di papà Tim, aggiornata però da Jeff tra canzone d’autore (le favorite Edith Piaf e Nina Simone), tentazioni hard zeppeliniane e influenze mediorientali (l’amato Nusrat Fateh Alì Khan). Ne viene fuori un calderone ispirato e ribollente, e ancor oggi fa rabbia pensare che Jeff ci abbia lasciato tre anni dopo in maniera incredibile, assurda, tuffandosi vestito a fare un bagno nel Mississippi. |
| Adesso escono, a distanza più o meno regolare, testimonianze live, ristampe dei suoi primi concerti (notevole Live at Sin-é), compilations assortite, sotto l’accorta regia della madre manager, Mary Guibert. La memoria di Jeff resta viva, insomma. E magari qualcuno ci guadagna pure un po’. "Grace", però, è un’altra cosa. Basta ascoltare la title track, un crescendo estatico e vibrante, e l’altrettanto intensa So Real. O Lover, you Should’ve Come Over, tormentata ballata acustica. E’ musica emozionata, questa. Impossibile restarne distanti. Jeff arriva anche a reinterpretare, quasi a cappella, il Corpus Christi Carol del compositore classico inglese Benjamin Britten, uscendone alla grande. Omaggia Nina Simone in Lilac Wine, Leonard Cohen in Hallelujah, e chiude col suo brano più bello, Dream Brother, atmosfera ipnotica e ritmo rock in lento e ineluttabile crescendo, accorata invocazione a qualcuno atteso per tanto, troppo tempo e mai arrivato, se non come impossibile fantasma da inseguire per la durata infinita di una breve vita. Luca Perlini
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